“C’è il bisogno di accettare la diversità e vederla come ricchezza. Ma non solo quella fisica, anche la diversità di pensiero”

Nella famiglia di Honoré lo studio è sempre stato molto importante assieme alla chiara consapevolezza che lui, le sue sorelle e fratelli, avrebbero dovuto perlomeno  laurearsi, anche senza scegliere lo stesso corso di laurea del papà. Lui, che era uno dei primi medici rwandesi, divenne direttore di diversi ospedali e dal 1973 fu chiamato nella capitale, Kigali, per ricoprire un incarico governativo e successivamente altri ruoli di alto livello istituzionale. Ed è a Kigali che Honoré è nato e cresciuto. Dopo il liceo in matematica e fisica, scelse di continuare i suoi studi in architettura, ma questa facoltà non era presente nel suo paese. All’epoca aveva una sorella che abitava vicino Biella, in Italia, e i genitori pensarono che fosse più sicuro averlo vicino a lei e quindi, la scelta di fare l’università in Italia fu immediata. “Non ci ho neanche pensato, mi è stato proposto il Politecnico di Torino, e quello è stato”. L’intenzione era quella di tornare in Rwanda una volta laureato, per dare anche solo un piccolo contributo nella costruzione del paese.

“Ero un ragazzo di 21 anni e quando mi proiettavo nel futuro mi vedevo progettare, e non delle casette piccole, ma dei palazzi alti. Il mio sogno era di vedere costruito ciò che avevo progettato”.

Honoré oggi vive in Italia da quasi 35 anni, e ricorda ancora il giorno del suo arrivo nel maggio del 1990. I primi mesi ha vissuto a Jesi, vicino Ancona, per frequentare il corso intensivo di lingua italiana e ad agosto si trasferì a Torino. Qui, oltre a dare gli esami, riuscì a creare una rete di amicizie con colleghƏ universitari e studentƏ che vivevano nel suo palazzo, persone che tutt’oggi frequenta e che gli permisero di vivere al meglio gli anni universitari. Dopo tutti questi anni, può dire di aver avuto in assoluto più esperienze positive che negative in Italia nonostante abbia vissuto qualche episodio spiacevole legato all’essere straniero. In più, frequentando la piccola comunità rwandese all’epoca composta da sole cinque persone, non pativa alcuna solitudine durante le vacanze di amic3 italian3. E qui, trovava un calore particolare.

“Non sempre le esperienze di uno straniero, socialmente parlando, sono negative. Dipende forse dall’ambiente che si può frequentare, o dalla possibilità di condividere cose importanti”.

Lui ha avuto questa possibilità attraverso l’università, in cui aiutare e farsi aiutare fa sì che si creino legami che vanno oltre l’etnia di ogni persona. E oggi si sente fortunato soprattutto quando pensa a persone immigrate come lui che, invece, fanno fatica ad integrarsi. 

Honoré una volta laureato sarebbe dovuto tornare a Kigali, ma l’atroce guerra civile che scoppiò nel 1994 durante la quale fu commesso il genocidio delle persone di etnia Tutsi, cambiò la storia del paese, ed ebbe un grande impatto sulla sua vita.

“Tutto iniziò con l’abbattimento dell’aereo su cui viaggiava il Presidente rwandese”.

Una carneficina che non può mancare sui libri di storia. “È stata una delle storie più violente che il mondo abbia mai conosciuto a livello di quantità di persone morte in così poco tempo”. Dopo quei mesi atroci, la stabilità politica nel paese è tornata lentamente, e ancora oggi ci sono cicatrici che non si sono ancora rimarginate del tutto e chissà, se mai potranno.

Non potendo tornare in Rwanda, iniziò a cercare lavoro a Torino nel mondo dell’architettura. All’inizio fu difficile, la paga era molto bassa o inesistente, e presto decise di cambiare ambito. Fu assunto in una multinazionale che opera nel settore del trasporto ferroviario, in cui lavora tutt’oggi, e che si occupa della progettazione, produzione e manutenzione di materiale rotabile e di sottosistemi di segnalamento. Per i primi dieci anni, ha lavorato nell’ufficio tecnico di ingegneria, per poi spostarsi nell’area di gestione commesse. La conoscenza dell’inglese e del francese sono preziose nel suo lavoro e la cultura, i valori e le abitudini rwandesi lo aiutano a relazionarsi con colleghƏ e clienti. Ma è proprio la socialità ciò che gli manca di più del suo paese, dove si vive in gruppo, le persone si presentano a casa senza preavviso e si chiacchiera per ore, senza essere un peso o provare imbarazzo. Un’apertura che gli manca molto, assieme agli odori, i suoni e persino il sentir parlare solo rwandese attorno a sé.

“Ho l’impressione che in Italia, pur di difendere la privacy si rinunci alla socialità. In Rwanda invece, si rinuncia alla privacy per avere il calore della comunità”.

Tuttavia un tempo, nella cultura rwandese, chi era solo e senza riferimenti familiari era a volte poco tutelato. Secondo Honoré il vero progresso di un paese non può essere tale solo in termini tecnologici. Deve andare di pari passo con la tutela di libertà e diritti individuali e stabilità politica. Mentre, nello sviluppo industriale, conta di più il saper fare infatti, “quando c’è una padronanza tecnologica, ciò che si ha nel sottosuolo può assumere un peso relativo”. A parer suo, la grandezza dell’Occidente può essere sintetizzata nella famosa frase di E. B. Hall, spesso attribuita a Voltaire, ‘non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo’ e quindi nella bellezza di vedere la diversità come ricchezza, e non come minaccia, e rispettarla. Trova che sia commovente la celebrazione del passaggio del potere in maniera pacifica e serena, in quanto rappresenta il culmine della cultura del rispetto delle regole e della difesa dei valori che genera consapevolmente pace, benessere e speranza.

“C’è il bisogno di accettare la diversità e vederla come ricchezza. Ma non solo quella fisica, anche la diversità di pensiero”.

Oggi Honoré è un project manager e non crede che queste competenze e conoscenze siano quelle che più servano nel suo paese. Qui, è generalmente molto importante la cultura del fare per agevolare la crescita. In questi anni in Italia, Honoré ha costruito la sua famiglia, e ridendo racconta di aver fatto la sua parte i termini di natalità dando all’Italia, assieme a sua moglie, due figliƏ. EntrambƏ sono molto legatƏ alle loro origini e non solo per i racconti del padre, o per il tempo passato in Rwanda, ma anche grazie alla trasmissione di questa cultura dal resto della famiglia sparsa tra Francia, Belgio, Irlanda, Stati Uniti e Canada. Durante il suo primo viaggio in Rwanda il figlio un giorno gli disse che si sentiva “come uno che è finalmente entrato in possesso di qualcosa che comunque già gli apparteneva”, parole che tiene strette a sé. 

La comunità rwandese a Torino è aumentata negli anni, e grazie ad un vero passaparola oggi ci sono circa sessanta studentƏ  universitari. Ogni volta che li vede dà risposte e consigli su problemi che non riescono a risolvere facilmente e che lui ha vissuto molti anni prima di loro: “in mezz’ora divento un papà”.