“Sono arrivata in Italia per una non scelta che poi, per forza di cose, lo è diventata. E lo rifarei!”

Elsabiet è nata e cresciuta ad Asmara, in Eritrea, e delle sue prime settimane in Italia, non può dimenticare la pioggia continua, il buio e l’aeroporto di Linate dove a causa della mancanza di un timbro sul passaporto, il suo ingresso legale in Italia è stato messo in discussione. Dalla sua, però, aveva ciò che lei continua a considerare un privilegio, ma che è stata la sua migliore amica ovunque servisse e la sua arma di difesa più grande: la conoscenza della lingua italiana. Fino a 17 anni fa, anni in cui viveva ancora in Eritrea, “il legame con il passato coloniale italiano era ancora vivo e forte” e ciò era dovuto soprattutto alla presenza della scuola italiana che lei stessa ha frequentato dall’asilo, alla maturità. 

“La mia prima lingua è sempre stata l’italiano. Come seconda lingua studiavamo il tigrino, ma era la nostra lingua madre quindi lo facevamo solo poche ore a settimana”.

Come lei, circa 2000 student3 ogni anno ottenevano un diploma italiano ufficialmente riconosciuto dal MIUR di Roma e insegnanti italian3 e le proprie famiglie lavoravano e vivevano nel paese. Sei anni fa, il governo eritreo decise di dare un taglio netto con il passato decretandone la chiusura e gran parte delle persone italiane lasciarono il paese. In Eritrea, dai 16 anni in poi, il servizio militare è obbligatorio e per Elsabiet è stata un’esperienza impattante, anticipata da un grande pressione psicologica, ma non negativa. L’aspetto peggiore è che si faceva nel deserto dove vi erano “45° a mezzogiorno, all’ombra di un albero che non esisteva” e che era mirato a spingerti al limite delle tue forze.  

“Il nostro addestramento era psicologico, ma soprattutto fisico, del tipo che dopo un’ora di corsa non riuscivi più a camminare. Dovevamo essere pront3 a difendere la patria e fort3 abbastanza per ogni evenienza”.

In più mangiare male, dormire poco e dover essere sempre sugli attenti, l’hanno resa forte e hanno caratterizzato la persona che lei è oggi, anche a livello di precisione di pensiero e disciplina. Inoltre, il servizio militare eritreo non ha una fine prestabilita ma a causa di una forma acuta di congiuntivite ricevette il congedo. E per lei, anche questo è stato un privilegio. Le si aprirono improvvisamente due strade davanti a sé: lavorare nel negozio di ferramenta dei suoi genitori, o andare all’estero per proseguire la sua formazione. E così passò da non aver mai pensato di lasciare l’Eritrea, a dover fare un passaporto e partire. 

“Tutto è successo per caso in poco tempo. In due settimane mi sono trovata dall’Africa all’Europa, in Italia! È stata più una scelta dei miei genitori che mia e oggi, li ringrazio tantissimo”.

Elsa è residente in Italia dal 2008 e oggi potrebbe essere cittadina italiana se le avessero notificato correttamente la residenza e se, anni fa, non fosse stata cancellata dall’anagrafe a sua insaputa. In più, andare in questura ogni anno per il rinnovo dei propri documenti e assistere al trattamento irrispettoso nei confronti delle persone in attesa, è stata una delle esperienze più brutte che abbia vissuto da quando è qui. Ma il suo temperamento l’ha sempre portata a parlare per chi non riusciva ad esprimersi, indipendentemente dalle conseguenze. Per tutte queste ragioni, andare a ritirare il suo permesso di soggiorno illimitato nel 2020 – a due giorni prima del lockdown – fu per lei una conquista personale e uno dei momenti più felici da quando vive in Italia. 

Nella sua famiglia il legame con l’Italia è sempre stato presente. Il padre vi si recava spesso per motivi di lavoro e attraverso la tv “che avevamo in casa – come tutte le persone africane”, vedevano il canale della RAI all’estero. Aveva un’idea teorica di come fosse l’Italia e di come si vivesse, ma una volta qui non fu facile ambientarsi, fare amicizia e imparare a conoscere Milano, dove inizialmente si trasferì per proseguire i suoi studi in ingegneria, per poi optare per Torino. Presso il Politecnico ottenne una specifica borsa di studio prevista per persone provenienti da paesi legati all’Italia a livello coloniale ma durante il suo primo anno, realizzò che quella non era la sua strada. Tentò quella di architettura, fece il test e con suo stupore lo superò ma perse la borsa di studio. Una scelta coraggiosa che si è rivelata essere quella giusta. L’ambiente di architettura era stimolante ed entusiasmante e per lei studiare era come coltivare una passione data dalla sua volontà di conoscere la città. Nel periodo in cui cercava casa, iniziò a collezionare una grande quantità di foto e video di palazzi e quartieri che oggi sono totalmente diversi e spesso si recava in biblioteca alla scoperta dei motivi delle incongruenze tra palazzi vicini. Negli anni, senza volerlo, ha documentato il cambiamento urbanistico e architettonico a cui ha assistito. Nel 2020 era arrivata ad essere in possesso di un vero e proprio archivio fotografico e con lo scoppio della pandemia si disse: “perché non trasferire tutto questo materiale su Instagram?”. E così, iniziò a raccontare l’architettura della città sui social. 

Oggi Elsabiet è a tutti gli effetti una digital creator, un influencer che ama raccontare Torino mediante quelli che ha definito “i gingilli”, camminate attraverso la città in cui racconta ciò che vede a livello architettonico, e gli “intrufolatò”, momenti in cui invece decide di avventurarsi all’interno dei portoni dei palazzi e visitare gli androni, le terrazze e prendere gli ascensori. Oggi è in possesso di un patentino da accompagnatrice turistica e negli anni le sono giunte nuove opportunità professionali sia nell’ambito della comunicazione dell’architettura, che dei social. Ciò che ama di più di Torino, è che è la città italiana con la maggior quantità di architettura liberty che definisce sensuale per l’assenza di spigoli. Una caratteristica che invece manca ad Asmara, città piccola e caratterizzata da un’architettura futurista e razionalista tipica del periodo fascista fatta di spigoli, monumenti costruiti per celebrarne le atrocità, grandi marciapiedi, un centro e di caffè – spesso ancora chiamati latterie – e un cinema. L’Eritrea, in quanto ex colonia italiana, “ha tante città che sono state create, costruite e pensate uguali a quelle italiane”.

Dell’Eritrea le manca molto il modo di concepire il tempo, vivendolo senza rincorrerlo, il mangiare tutt3 assieme, dallo stesso piatto con le mani, e il poter raggiungere luoghi distanti a piedi. Le piacerebbe organizzare eventi di divulgazione che si sviluppano attorno al rito del caffè eritreo in cui, mentre si discute, si assiste alla tostatura e macinatura dei chicchi per poi arrivare ai diversi giri di caffè fatti attraverso una moka in terracotta. Dell’Italia, invece, le piacerebbe portare in Eritrea la possibilità di poter parlare apertamente delle proprie difficoltà assieme alla consapevolezza che chiedere aiuto, non è sbagliato. Qualcosa che in Eritrea non avviene per una caratteristica culturale e caratteriale del popolo, volto sempre a non far preoccupare l’altr3. Elsabiet desidera che il suo popolo psicologicamente stia bene, e che le donne possano avere anche altre opportunità nella vita oltre ai ruoli di mogli e madri. 

Oggi si considera “una delle persone maggiormente integrate che si possano conoscere e un po’ torinese”. Qui si è dovuta adattare alla necessità di catalogare le persone in base alla propria nazionalità o all’identità do genere e spesso si chiede se, nel suo lavoro, le aprirebbero lo stesso le porte di casa se non parlasse la lingua, se fosse di un’altra nazionalità o se indossasse l’hijab. Ma nella vita, come nel lavoro, non rinuncia mai a raccontare il suo punto di vista – anche culturale – perché è convinta che la vera ricchezza risieda nel condividere, ascoltare e conoscere ciò che è diverso da sé. 

“Sono arrivata in Italia per una non scelta che poi, per forza di cose, lo è diventata. E lo rifarei!”