“Io sono italo-colombiana! È così che mi sento e ho capito che non c’è la necessità di scegliere fra le due perché entrambe fanno parte di chi sono”

Adriana ha sempre messo al centro della sua vita, dei suoi studi e del suo impegno sociale sul territorio, l’importanza di vedere la realtà che la circonda nella sua complessità e nelle sue sfaccettature. Nata a Bogotà, è arrivata in Italia a 11 anni per ricongiungersi con il padre e con coloro che sarebbero diventate sua mamma e sua sorella, entrambe di origini peruviane. Dal nonno bergamasco emigrato negli anni ’20 in Colombia, ne ha ereditato il passaporto italiano, che lei considera un privilegio ma che non le ha comunque evitato un complesso percorso identitario. Infatti, nei suoi primi anni di scuola a Torino, ha vissuto una fase di rifiuto della sua colombianità e larinoamericanità per essere uguale all3 altr3 bambin3, per poi riabbracciarla a pieno durante la sua adolescenza rifiutando, questa volta, la sua italianità. Solo dopo diversi anni, riuscì ad abbracciarle e affermarle entrambe.

“Io sono italo-colombiana! È così che mi sento, e ho capito che non c’è la necessità di scegliere fra le due perché entrambe fanno parte di chi sono”. 

Successivamente, iniziò a scontrarsi con la realtà che la circondava. Nel 2009 intraprese due importanti percorsi, il suo impegno nel progetto Migrantour di Torino, e la sua carriera universitaria in giurisprudenza. Il primo, è un progetto che punta a creare spazi di incontro interculturale attraverso itinerari urbani condotti da accompagnator3 intercultural3 che attraverso il proprio background migratorio portano la propria visione della città. A giurisprudenza invece, si scontrò con una realtà ben diversa. Sin dalle prime lezioni, comprese che ciò che stava andando a studiare era incentrato su una vecchia idea di stato e di diritto che comprendeva esclusivamente cittadin3 italian3, escludendo tutt3 coloro che vivevano sul territorio italiano e non ne avevano i diritti di cittadinanza, ad esempio. Si rese conto della lontananza del mondo accademico dalla società che lei vedeva e viveva ed “era come se ci fossero due città e due comunità miscelate nella realtà, ma separate nella teoria e soprattutto nei diritti”. Decise di orientarsi verso l’ambito della giurisprudenza legata alle migrazioni e al diritto d’asilo, e nel frattempo, alla ricerca della sua strada, si avvicinò al mondo della cooperazione internazionale. Per due anni lavorò come cooperante internazionale prima in Polonia, con persone richiedenti asilo ucraine e cecene, e poi in Thailandia dove lavorò con la comunitá Karenni, proveniente dal Myanmar, e rifugiata da decenni proprio nelle zone di confine fra i due paesi. Tornata in Italia, fece del progetto che più l’aveva plasmata una professione diventando coordinatrice di Migrantour e dei progetti UE ed AICS ad esso collegati a Genova. Continuò a cercare opportunità nel mondo della cooperazione e non trovando ciò che stava cercando, decise di riprendere a studiare. 

Nel 2020 si è lanciata in un master in Politiche Sociali e Azione Comunitaria a Barcellona, città in cui vive attualmente. Si è concentrata sullo studiare come le comunità, in assenza di interventi concreti da parte dello Stato, si autorganizzano per tentare di dare risposte alle proprie necessità basiche. Oggi continua a dedicarsi alla ricerca su questi temi mediante un dottorato in Politiche pubbliche e relazioni internazionali concentrandosi sulla migrazione femminile legata al lavoro di cura. Adriana è parte di quella generazione che ha assistito all’arrivo di tantissime donne in Italia, a Torino soprattutto dal Perù, per lavorare come badanti e questo ha da sempre suscitato in lei curiosità e interrogativi.

“Mi ha sempre incuriosita questo fenomeno per cui la donna lascia le persone di cui si sta teoricamente prendendo cura, come figl3 e genitori, per andare in un altro paese e prendersi cura dei genitori e figl3 di altr3”. 

Le politiche pubbliche sono generalmente create sull’ideale di un individuo che si dedica esclusivamente al lavoro retribuito e non ha nessun’altra responsabilità. Un disegno che risulta spesso inadeguato alle esigenze delle donne sulle cui spalle ricadono responsabilità di cura non retribuite e spesso difficilmente conciliabili con il lavoro. Oltre a cercare di sradicare la connessione tra il lavoro di cura e la dimensioni di genere, Adriana punta a concentrarsi sul conflitto che le donne in generale, e in particolare le donne migranti, vivono da un lato, e su come le politiche sociali possano essere – o meno – una risorsa dall’altro. Nella sua ricerca, l’80% delle protagoniste sono donne migranti che raccontano le loro difficoltà in quanto spesso madri sole e con limitate risorse a disposizione. Inoltre, dai dati empirici raccolti mediante interviste, emerge il ruolo fondamentale delle comunità per il loro supporto. Adriana crede che fattori come l’età, il motivo per cui ci si sposta, il passaporto che si ha o non si ha e le situazioni complesse vissute durante il viaggio segnano le persone, e influenzano il modo in cui vivranno e si comporteranno. Anche appartenere ad una stessa comunità porta le persone a incontrarsi ed esprimere certi tratti comuni e di questo ne è testimone vivendo a Barcellona, dove quella italiana è la comunità migrante più numerosa.

“Quando siamo migranti, seguiamo delle dinamiche molto simili. Cerchiamo il cibo, la musica, le abitudini che conosciamo, le persone che parlano la nostra lingua. Cerchiamo il modo di sentirci più vicin3 a casa e nel mentre ci relazioniamo con altr3”.

In Spagna, a differenza dell’Italia, ha trovato un mondo accademico che l’ha messa a proprio agio, grazie ad un ambiente più accogliente e alla possibilità di avere un contratto di lavoro che la tutela come ricercatrice. Ma vivere in Spagna da persona latinoamericana è ancora diverso dati alcuni retaggi dell’epoca coloniale ancora presenti, secondo cui le persone latinoamericane sono il prodotto della civilizzazione portata dalla colonizzazione.

Le manca la famiglia, ma allo stesso tempo si sente una migrante privilegiata in quanto può tornarci spesso. Le mancano le cose tipicamente italiane come l’attenzione al dettaglio e gli spazi, a Barcellona è tutto molto più stretto. Le manca il cibo peruviano cucinato dalla mamma, e allo stesso tempo le Arepas colombiane riescono a portarla con la mente e il cuore assieme alla nonna. Adora ballare la salsa e ama ascoltarne i testi degli anni ‘80 di denuncia sociale e spesso messi in ombra da quel ritmo che ti porta automaticamente a muoverti. Insomma, “dove nasci e il contesto in cui cresci ti segnano, fanno parte di te”.